Studi sul Cristo storico: due recensioni


Ogni momento dell'evoluzione del pensiero si esprime  in tematiche tipiche.


Nella teologia  cristiana, sembrava  che dopo il  Concilio Vaticano II il problema fosse rendere attuale e al passo nella nuova sensibilità tecnologico-multimediale il  messaggio evangelico.


Ora mi sembra che l'attenzione  si sia  spostata  sulla ricerca  della figura reale di Cristo, tanto che anche il Papa Ratzinger se ne  occupa.


Il problema contemporaneo rimane quello del difficile  rapporto  con un sostrato  culturale e teologico plurisecolare,  che sembra  far da cuscinetto  tra noi e  il  mistero di Dio rivelato -  per chi ci crede -  duemila  anni fa.


Ho letto recentemente il libro di Corrado Augias e di Mauro Pesce "Inchiesta su Gesù"  (Mondadori 2006), che è una relazione strutturata ad intervista del giornalista Augias al professore di storia delle religioni Pesce.


Lo stile  di scrittura non mi ha affascinato particolarmente,  ma i  contenuti sono  interessanti.


Rilevo i  discorsi che ho trovato più originali:


- Gesù era un ebreo.  La  cosa può sembrare banale,  ma quello che il libro vuole sottolineare è che Cristo non si  voleva connotare  in  modo autonomo  dal suo  contesto,   cioè non era cristiano. Anche la comunità dei suoi discepoli della prima ora non aveva idea di distaccarsi dalla ortodossia  ebraica.


- la religione cristiana occidentale per  come  la  conosciamo noi è figlia di  un approccio diverso, di cui forse è Paolo il filosofo. Tra Gesù  e  Paolo  c'è una differenza  sostanziale nell'approccio alla fede.  C'è l'apertura  al  mondo greco e romano, ad esempio.


- l'interpretazione del testo evangelico comunemente adottata nelle chiese è  una  forzatura che distorce -  in buona fede  - il significato  originario del messaggio. Come nel famoso detto "è  più facile  che un cammello passi per la  cruna di  un ago..." in cui il  vocabolo kamai che vuol dire "fune" è stato tradotto in cammello, vi sono molti casi in cui  il fraintendimento è evidente. Verginità della madonna, i fratelli  di Gesù,  sono alcuni degli altri esempi  citati.


- la lettura che è stata data del momento finale  dell'esperienza terrena di Gesù è fortemente  condizionata dal momento  di avvicinamento storico tra i cristiani e l'impero romano; pertanto è vero  che la  portata del  messaggio di Gesù era anche politica - e non poteva essere altrimenti, perchè la distinzione tra contenuti religiosi e laici è solo occidentale, mentre nella palestina di 2000 anni fa,  come nel  mondo islamico anche attuale, i due piani si sovrappongono. Pertanto non è affatto vero che Pilato se ne sia lavato le mani, ma anzi sappiamo da fonti storiche che sia stato uomo  tanto crudele da essere poi rimosso con infamia dall'autorità romana. Viceversa, il motivo antisemita che fa ricadere la responsabilità della condanna su tutto il popolo ebraico è completamente privo di  fondamento, se non  altro perchè nè erano state  coinvolte nella condanna del sinedrio tutte  le autorità religiose ebraiche, nè  la famosa piazza che urlava per Barabba poteva contenere più di  un centinaio  di persone,  e quindi una minima parte della  popolazione della Gerusalemme di allora.


Rimane fuori dal discorso tutta la  tematica della Fede, e mi   pare giusto che sia  così, visto l'approccio laico alla materia.


Il libro del Papa (Ratzinger,Gesù di Nazareth, Rizzoli 2007), invece,  naturalmente recupera questo aspetto, anche se l'obiettivo di recupero della figura reale e storica del Cristo è simile.


Io francamente mi aspettavo dal Papa l'ennesimo commento sulla figura di Gesù come appare nei Vangeli.


La mia aspettativa è stata corrisposta solo in parte, per fortuna, perché Ratzinger commenta solo in modo strumentale ad un altro obiettivo, ben più originale ed interessante.


La sua riflessione vuole rispondere ad una specifica domanda, che per la verità  non è da tutti, e probabilmente neanche viene in mente alla maggior parte dei cristiani: la figura storica di Cristo, smontata dall'esegesi del vangelo dagli anni 50 ad oggi, quale è?


Cioè, se gli studiosi delle fonti del Nuovo Testamento qualificano come inventate molte parti del testo arrivato ai nostri giorni, come facciamo sapere cosa c'era di vero nella storia di Gesù?


Come dico, il problema mi sembra ignoto alla stragrande maggioranza delle persone che vanno a messa, le quali sono abituate dalle omelie a riflettere su ogni inciso del racconto evangelico, preso per buono parola per parola.


Il fatto che questo Papa osi rilevarlo, può apparire una operazione rischiosa, una “excusatio non petita”, una riflessione che può porre molti dubbi a chi non ce l'aveva.


Personalmente non la vedo conveniente dal punto di vista del marketing religioso, ma la apprezzo ancor di più per questo perché dimostra un'onestà intellettuale che va oltre la strategia di attirare più fedeli possibile.


Non che tale finalità non abbia precedenti; anzi lo stesso Ratzinger ne cita subito il più significativo, tale Rudolf Schnackenburg, che nell'opera “La persona di Cristo nei 4 vangeli” arriva alla conclusione che le fonti letterarie non  ci permettono con il metodo dell'esegesi storica di arrivare ad una visione affidabile della figura di Cristo.


Tale conclusione non può essere accettata però da Ratzinger, che quindi con il libro intende proporre un'altra lettura.


Il metodo dell'esegesi canonica che lui propone, che prevede l'interpretazione dei brani alla luce dell'interezza del testo evangelico, rimane genericamente definito nella premessa al libro, e verrà concretizzato nei vari capitoli, anche se l'ampia discrezionalità nell'interpretazione globale non ne fa, a mio parere, un metodo che possa dare dei risultati scientificamente ripetibili, ma anzi apre alle soggettive interpretazioni.


A riprova di tale conclusione, lo stesso Ratzinger avverte il lettore che i risultati del suo studio con i metodo anzidetto non sono da considerarsi in alcun modo atti magisteriali, ma espressioni della sua  ricerca personale.


Apprezzo l'umiltà, ma così indebolisce da solo la propria proposta del metodo esegetico, e cerca di scansare ancora una volta le responsabilità e i vincoli del dogma dell'infallibilità papale.




Non intendo qui riassumere i contenuti del libro, ma solo rilevare alcuni punti del testo dove ho rilevato spunti veramente interessanti ed originali:


-         a pagina 44, parlando del battesimo di Gesù, si contrappone alla letteratura teologica che ha interpretato questo brano evangelico come una chiamata vocazionale, bollandola senza mezzi termini come “riconducibile al romanzo su Gesù”. Una presa di posizione forte nei confronti dei colleghi teologi, che apprezzo come testimonianza di scarsa attenzione alla diplomazia;


-         a pagina 52, osa persino prendere in giro i Padri della Chiesa che avevano cercato di dare un significato caballistico ai 40 giorni nel deserto di isolamento di Gesù, d5icendo che forse si erano un po' divertiti nell'interpretazione. Ancora una presa di posizione coraggiosa e inedita per un papa;


-         di seguito, pagina 53: una affermazione apparentemente scontata, ma non tanto. L'uomo per credere ha bisogno di prove; hanno chiesto miracoli durante la vita di Gesù, ora anche noi siamo portati a chiedere “...se esisti o Dio, allora devi mostrarti; allora devi squarciare la nube del tuo nascondimento e darci la chiarezza, a cui abbiamo diritto. Se tu o Cristo, sei veramente il Figlio, e non uno degli illuminati che sono apparsi continuamente nella storia, allora devi mostrarlo più chiaramente di quanto fai. E allora devi dare alla tua Chiesa, se proprio deve essere la tua, un grado di evidenza diversa da quella che possiede”. Sono parole che scritte da un papa fanno impressione. Eppure con queste esplicite dichiarazione di dubbio, egli scopre l'insidia della tentazione che lui stesso prova, come ogni uomo, quella di sfidare Dio a bucare il telo di nascondimento in cui si è riparato, e a imporsi all'evidenza pubblica come unica scelta possibile.  Il che però non è il cammino di fede proposto da Gesù, evidentemente.


-         a pagina 63 tira fuori un'argomentazione tipica degli storici atei, e cioè quella che il famoso Barabba a cui la folla fu favorevole nella scelta del patibolo, non sarebbe niente altro che un alter ego di Gesù stesso, perché il termine significa “Figlio del Padre” e in alcune fonti viene addirittura citato come Gesù Barabba, cioè Gesù Figlio del Padre. Da questo Valter Donnini ed altri hanno desunto che Gesù non fosse quel sant'uomo che conosciamo, ma il capo della rivolta contro i Romani. Ratzinger invece, sul solco della tradizione, coglie l'occasione per chiedere: nella scelta tra Gesù e Barabba, cioè tra un messia ascetico ed uno politico, cosa sceglieremmo noi? Bella domanda.


-         a pagina 66 un'altra perla: posto che Gesù non si è voluto porre come autorità temporale, e superata la pretesa della Chiesa di svolgere anche questo ruolo, il cristianesimo può essere ancora interpretato come una ricetta per il progresso e il benessere dei popoli? E questa mi sembra una frecciata alla teologia della liberazione, ma anche all'atteggiamento attivistico di tutti i religiosi che pensano che una religione che non si esprime nell'assistenza ai più deboli non sia una buona religione.


-         A pagina 83 troviamo una definizione teologica del Regno di Dio diversa da quella del catechismo ufficiale: secondo Ratzinger non è che il Regno si realizza nell'interiorità, come sostenevano Origene ed altri, ma il Regno è Gesù stesso. Così spiega i detti sulla vicinanza del Regno, che normalmente sono intesi in un imbarazzante fraintendimento da parte di Gesù sui progetti del Padre; la tesi è affascinante ma non convince.


-         A pagina 95 mi piace che l'autore tenga ad evidenziare un aspetto abbastanza desueto delle beatitudini: tutti le intendono come promesse per il futuro, cioè in chiave escatologica; invece la presenza di Dio nella vita del sofferente è già di conforto da subito. Giusto, e sperimentato personalmente.


-         A pagina 101 affronta il problema della povertà  del cristiano, che normalmente viene interpretata comodamente come povertà di spirito, così  anche i miliardari possono fare la Comunione senza scrupoli. Viceversa, Ratzinger non sta al gioco e parla della povertà materiale; fare i S. Francesco non è vocazione di tutti – dice - ma la rinuncia all'attaccamento alle cose sì. Un po' di buddità, insomma.


-         A pagina 125 ecco il tema della legge, vero assillo di Lutero: se Paolo ci parla della libertà del cristiano contrapposta alla schiavitù della legge dell'ebreo, invece secondo Ratzinger l'aspettativa del popolo ebraico che il messia avrebbe portato ad una nuova Torah è stata soddisfatta dall'insegnamento di Gesù, sintetizzato poi dagli evangelisti nell'ambito del cd discorso della montagna. Una nuova Torah, quindi, che completa quella mosaica ma se ne pone in antitesi, superando i divieti formali per arrivare all'intenzione dell'uomo. Mi sembra un interessante punto di vista. Per rilevare la differenza di approccio, segnala il libro di Jacob Neusner  “Un rabbino parla con Gesù”, che mi riprometto di cercare.


-         A pagina 216 incidentalmente l'autore rivela un approccio personale alla diversità delle fonti evangeliche; confrontando il testo che riferisce il detto di Gesù sul vino nuovo nelle botti nuove (Mc 2,22 Mt 9,17 Lc5,39) evidenzia che l'aggiunta di Luca sull'apprezzamento del vino vecchio ci conserva qualcosa di più degli altri; in generale, sembra desumere, le diversità delle fonti ispirate hanno la funzione di conservare qualcosa di essenziale del messaggio originale. Dico che è un approccio interessante perché di solito tutti i religiosi tendono a minimizzare le differenze.


-         A pagina 230 solo una sottolineatura, non originale ma importante: le parabole sono per chi si è convertito perché vanno lette con un criterio spirituale, non umano. Altrimenti nascondono tutto.


-         A pagina 249 parla della parabola del figliol prodigo, e segnala opportunamente che il finale è importante, perché rivela che in conclusione il figlio disgraziato è convertito, mentre l'altro rimane attaccato alla visione del Padre-legge, ma deve ancora convertirsi per cogliere l'aspetto del Padre-amore. Insomma il problema dei farisei di allora, e della maggior parte dei parrocchiani attuali.


-         A pagina 267 Ratzinger rivela di aver letto un po' di tutto, ed è divertente leggerlo confrontarsi con il socio di Marx, ovvero Hengel, a proposito del valore storico del vangelo di Giovanni. Ancor più interessante leggere una difesa della storicità dello stesso vangelo: non è una composizione poetica, ma ovviamente neanche una registrazione a nastro delle parole di Gesù; assolve il compito di farci cogliere sfumature che dal racconto dei meri fatti non emergerebbero.


-         A pagina 372 altro “punctum dolens”: se Gesù è il Figlio di Dio, perché si ostinava a volersi far chiamare solo “figlio dell'uomo”? Da tale circostanza alcuni desumono che non avesse natura divina. Ratzinger ammette che chiamarsi figlio dell'uomo significa volersi qualificare come uomo; che però Gesù intendesse un particolare significato si desume per esempio dalla polemica sul rispetto del sabato da parte dei suoi discepoli, che lui taglia corto dicendo che “il figlio dell'uomo è signore del sabato”, assumendo con tale qualifica una dignità particolare rispetto alle prescrizioni rabbiniche. Il termine, poi, era già presente in Daniele 7, e si riferiva al Signore del mondo alla fine dei tempi.


-         A pagina 397 infine troviamo una chiarificazione del problema del nome di Dio, che assilla testimoni di geova e simili. Il senso della rivelazione del nome a Mosè è l'affermazione dell'esistenza assoluta di Dio: un Dio che, innanzitutto, è.


In conclusione,  mi pare un ottimo libro anche questo.


Non esisterà  mai,  forse, un testo che possa darci  in toto l'idea della reale figura di Gesù, ma solo  confrontando diverse descrizioni ci si  può fare un'idea personale della portata del personaggio.

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