Abbracciare la sofferenza


Qualche giorno fa il chirurgo che mi doveva operare mi chiedeva della mia soglia di sopportazione del dolore, per poter scegliere la metodica più efficace. E mentre dal tavolo operatorio gli davo il mio assenso mi ricordavo il vecchio adagio per cui "il medico pietoso fa il malato purulento".

Il rapporto con la sofferenza è uno degli elementi che caratterizzano il modo di vivere delle persone. A nessuno che non sia masochista piace affrontare un momento di dolore, ma il nostro istinto naturale ci spinge a proteggerci da esso in ogni modo. Eppure nel dolore siamo stati partoriti, viviamo e moriamo. E siamo portati a pensare che ci sia qualcosa di profondamente ingiusto in questo sistema naturale, in questa condizione che ci accomuna ad ogni forma di vita animale.

Dato che l'esperienza del dolore è ineliminabile dalla vita, gli esseri umani devono adattarsi ad accettarla, e maturare un approccio che permetta di gestirla. E' un percorso collettivo ma anche individuale. Un percorso che non solo porta a definire una soglia di accettabilità del dolore, ma anche a darci un senso.

Nel senso della sofferenza sta la chiave del senso della vita.
Chi vive in una prospettiva materiale e contingente, difficilmente può trovare un senso nel  dolore di chi per problemi di salute o per la violenza altrui viene ferito nel corpo e nella psiche.
Chi invece ha abbracciato una prospettiva trascendentale può trovare molti significati, anche piuttosto fantasiosi. Tra questi ultimi, c'è chi vi riconosce la persecuzione di una divinità, la punizione del peccato, il segno di una predestinazione malefica.

Suscitando in chi non crede l'ovvia e legittima considerazione che non possa esistere una  divinità benigna onnipotente che permetta il riprodursi costante nella storia di un'immane esperienza di dolore in tragedie collettive ed individuali.

Dal mio punto di vista, il senso di questa vita sta nella sua limitatezza nel tempo, e proprio nell'esperienza dello sforzo e della sofferenza. Lo sforzo come espressione di una dinamica che contraddistingue la lotta per vivere, il dolore come prodotto diretto dello sforzo. Finchè esiste un corpo che lotta per respirare, c'è dolore. Chiunque si ponga degli obiettivi nella vita, li persegue con lo sforzo, e accetta di affrontare il relativo costo in sofferenza. Anzi secondo me questo è il principale fine di ogni educazione, sia fisica che intellettuale. Occorre imparare ad affrontare la sofferenza fisica, e per questo giova fare uno sport intenso; per elevarsi culturalmente occorre imparare ad affrontare la fatica dello studio. Senza sforzo e dolore non si arriva da nessuna parte.

E questo è vero anche sul piano spirituale: l'uomo per potersi avvicinare a Dio deve fare un lavoro su sè stesso, e compiere uno sforzo di accettazione della condizione umana con le sue criticità fisiche, e di liberazione da ogni resistenza interiore all'espressione della propria libera scelta del bene. La metafora evangelica di questa condizione è la cd. "via stretta". Il credente sa di non poter compiere le scelte più comode, ma di dover far forza su se stesso per essere coerente in soluzioni etiche difficili. D'accordo, la stragrande maggioranza dei cosiddetti credenti sembra fare il contrario, ma questo è proprio l'indicatore più sicuro per identificare chi veramente sulla Fede si gioca la vita, e chi invece rimane a livello di ipocrite professioni pubbliche.

Per il cristiano, la via è quella di affrontare la vita portando la propria croce. A chi mi  chiede se il Dio cristiano non sia per caso un sadico, rispondo che io non so perchè noi esseri umani siamo fatti in un certo modo ma, preso atto di questo, l'unico modo in cui possiamo evolvere è solo attraverso lo sforzo e la sofferenza. La promessa di Cristo è quella di una vita eterna, rispetto alla quale questa terrena non è che un battito di ciglia, nella quale c'è la comunione con Dio e il superamento delle criticità e limitazioni attuali. Solo nella sofferenza della salita al Golgota troviamo il passaggio necessario alla Resurrezione. In questo senso l'autore della lettera agli Ebrei (cap. 12) ci segnala il ruolo educativo delle sofferenze della vita e sottolinea il paradosso che nelle prove della vita si esprime l'amore di Dio per noi; Egli come qualunque genitore provvede  alla crescita dei propri figli attraverso la sofferenza.

A proposito di tale paradosso, mi piace ricordare un aneddoto tratto dalla vita di Teresa  d'Avila, la fondatrice cinquecentesca dell'ordine dei carmelitani scalzi. Questa monaca girava la spagna per fondare monasteri, con le difficoltà di trasporto dell'epoca. Ferita a una gamba, un giorno si rivolse a Dio con schiettezza di donna risoluta: «Signore, dopo tante noie, ci voleva anche questo guaio!». Dio le rispose: «Teresa, io tratto così i miei amici». E lei, di rimando: «Ah, Dio mio, ora capisco perché ne avete così pochi!».

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